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Luisa Zecca, professoressa: “la dispersione scolastica è un fenomeno complesso, servono più dati per prevenirla”

Intervista a Luisa Zecca, professoressa ordinaria del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università Bicocca, con una specializzazione nella progettazione e valutazione, didattica laboratoriale, formazione degli insegnanti e rapporto tra scuola e territorio.

Luisa Zecca è professoressa ordinaria del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università Bicocca, con una specializzazione nella progettazione e valutazione, didattica laboratoriale, formazione degli insegnanti e rapporto tra scuola e territorio. Ha svolto attività di ricerca e divulgazione in ambito formativo e ha all’attivo oltre 20 progetti nazionali e internazionali: la sua testimonianza è preziosa per comprendere lo stato dell’arte delle modalità di misurazione e prevenzione del problema della dispersione scolastica e per individuare possibili soluzioni per il futuro, a condizione di modificare profondamente il rapporto tra scuola, società, terzo settore e il resto della comunità educante.

Di che cosa parliamo, oggi, quando parliamo di dispersione scolastica e fino a che punto siamo consapevoli della rilevanza e diffusione del fenomeno?

Il tema è al centro del dibattito nazionale fin dai tardi anni Ottanta e la consapevolezza del fenomeno è andata crescendo nel corso del tempo, così come l’urgenza di porvi rimedio investendo in misure di contrasto e prevenzione. Rispetto ad alcuni anni fa, oggi sappiamo che la dispersione non coincide necessariamente con l’abbandono, che esiste un problema di dispersione “implicita” altrettanto se non più diffuso della dispersione “esplicita”, e che ogni anno sono migliaia gli studenti che portano a termine il percorso di studi pur senza possedere le competenze minime per proseguire nel mondo dell’università e del lavoro.

Quali sono i dati disponibili e quali, invece, quelli di cui avremmo bisogno?

La dispersione scolastica è da sempre un fenomeno difficile da misurare. Se da un lato siamo riusciti a disporre di dati abbastanza uniformi per quanto riguarda il tasso di abbandono a livello nazionale, in diminuzione anno dopo anno, nondimeno manchiamo ancora di elementi certi per valutare l’effettivo tasso di dispersione “implicita” e per valutare il livello di rischio di ogni singolo istituto. Mancano del tutto, inoltre, misurazioni uniformi dei segnali che consentirebbero di rilevare in anticipo il rischio di un possibile abbandono: l’assenteismo, la frequenza irregolare, le molte ripetenze da parte dei singoli studenti. Se è vero che alcuni istituti sono stati in grado – approfittando dell’ampio margine di autonomia di cui dispongono – di attivare strumenti di rilevazione interna in quest’ambito, nondimeno la loro iniziativa è limitata dalla mancanza di un unico “database” nazionale dove far confluire questi dati per poter organizzare interventi di prevenzione mirati e coordinati tra loro.

Che cosa ci raccontano questi dati, e in che modo sono cambiate le modalità di contrasto della dispersione scolastica?

La condizione socioeconomica e culturale della famiglia di origine rimane, tuttora, uno dei principali indicatori correlati al rischio dispersione, e non a caso le prime forme di contrasto hanno previsto interventi di assistenza sociale al di fuori del perimetro scolastico. Ora siamo maggiormente consapevoli dei fattori endogeni, ovvero delle cause intrinseche alla scuola stessa, e assistiamo a una crescita di interventi riguardanti l’orientamento, l’educazione alternativa, il rafforzamento dei canali di contatto tra scuola e aziende, fino ad arrivare alle scuole di seconda opportunità dove gli studenti pluriripetenti possono seguire percorsi didattici personalizzati. Gli interventi, tuttavia, spesso arrivano in ritardo rispetto all’insorgere del problema, o si limitano a produrre un temporaneo effetto di “benessere” sulla condizione emotiva e psicologica degli studenti, mancando in molti casi di una visione d’insieme e di un approccio sistemico che, solo, può davvero prevenire il rischio di dispersione.

Quale dovrebbe essere il ruolo degli insegnanti e della società nel suo insieme in una prospettiva di contrasto sistemico alla dispersione?

Le professionalità esterne al mondo della scuola possono dare un contributo fondamentale nel prevenire la dispersione scolastica, a condizione di essere messe nelle condizioni di intervenire in maniera continuativa e immediata sui casi più a rischio. Il terzo settore, in particolare, dispone di un patrimonio di conoscenze ed esperienze nella gestione delle problematicità legate alla crescita dei giovani che la scuola non possiede o possiede solo in parte. Molti insegnanti, oggi, sono impreparati ad affrontare un contesto fatto di classi multiculturali, affollate, dove è forte la presenza di studenti con background migratorio personale o familiare, nati o meno in Italia, che in alcuni casi devono recuperare anni di studio della lingua italiana. A cambiare non devono essere solo le strutture scolastiche, l’organizzazione delle aule e dei luoghi di studio, ma anche il metodo stesso di insegnamento, per rispondere ai bisogni di una generazione di studenti demotivati e che affrontano difficoltà e fragilità preesistenti rispetto all’inizio degli studi.

Quali sono, secondo lei, le criticità più urgenti da affrontare, e che cosa ci manca per farlo?

Il primo passo è quello di ottenere dati più granulari di quelli disponibili finora. I dati di cui disponiamo vengono generati in contesti scolastici molto diversi tra loro, anche se distanti sulla mappa geografica solo pochi chilometri, e non siamo in grado di ricondurre l’aumento o la diminuzione nei tassi di dispersione a fattori endogeni oppure esogeni rispetto al singolo contesto scolastico. Il turnover degli insegnanti, le variazioni nei livelli di occupazione dei genitori, i cambiamenti dei piani didattici e delle offerte formative sono variabili determinanti che, tuttavia, non vengono rilevate dagli attuali sistemi di misurazione. Se potessimo avere più dati, messi a disposizione dalle scuole in un formato uniforme, si potrebbero progettare delle politiche di contrasto alla dispersione più efficaci e a un costo inferiore. La svolta, in questo senso, potrebbe essere quella di non trattare più gli insegnanti come se fossero figure “di sfondo”, nella prospettiva di introdurre metodi di ricerca collaborativa con l’obiettivo di rendere gli insegnanti stessi protagonisti del cambiamento che ci aspettiamo da loro.

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